Come potete vedere, ho apportato alcuni cambiamenti al blog. L'anima di Cruna di Stella non è cambiata, solo il modo di visualizzarla. Sulla tendina a sinistra, grazie alle visualizzazioni dinamiche, ogni visitatore potrà scegliere come far apparire il blog ai suoi occhi.
Come primo post della "nuova veste" di Cruna ho deciso di pubblicare un articolo di mio figlio, Giovanni Piana (sì, è davvero omonimo del grande filosofo italiano, sperando di non generare confusione, visto che entrambi si occupano di musica).
E sperando anche che Giovi si decida ad aprire un blog tutto suo dove poter parlare di musica e non solo.
Dopo il nostro viaggio a Vienna del maggio scorso avevo chiesto a Giovi di scrivere qualcosa sul suo musicista preferito, Beethoven, dal momento che eravamo stati a visitare la sua tomba al Zentral Friedhof.
Mio figlio mi perdonerà se lo pubblico solo ora.
E voi mi perdonerete se, al contrario di sua madre, Giovi scrive parecchio.
Per un musicista, poter parlare di Ludwig Van Beethoven rappresenta sempre un’esperienza totalizzante: come per un attore teatrale parlare di Shakespeare, per uno studioso di letteratura italiana parlare di Dante, per un militare parlare di Napoleone, per un filosofo parlare di Platone. Poiché Beethoven ha rappresentato una delle vette più elevate ed uniche nell’arte della musica.
Certamente si potrà obiettare che, come Giulio Cesare poteva competere con Napoleone e Manzoni con Dante, anche Mozart o Bach possono “competere” (che brutta espressione!) con Beethoven.
Tracciamo subito un solco. Non c’è alcuna competizione né ci deve essere tra genî. Gli artisti sono particolarmente avvantaggiati in questo poiché non si occupano di una scienza perfetta, ma di una materia sempre plasmabile, sempre in divenire e (in special modo i musicisti) sempre trattata in tempo reale o quasi, poiché la musica impressa sulla carta rivive ogni volta che viene interpretata negli anni a venire, cosa che distingue la musica da tutte le altre arti.
Eppure, proprio nella musica capita di assistere a spiacevoli episodi: camarille, partiti presi, scambi di opinione tra colleghi che diventano dispute, tra “modernisti” e “antichisti”, tra “barocchisti” e “romantici”, o avvicinandoci ai nostri tempi, “classicisti” e “jazzisti”.
Classificazioni ed etichettature inutili che non dicono assolutamente nulla dell’arte, né tantomeno tengono conto del fatto che se è esistito un Beethoven lo dobbiamo anche al canto gregoriano, se è esistito un Gershwin lo dobbiamo anche a Beethoven, se esiste Bruce Springsteen lo dobbiamo anche a Gershwin.
Torniamo a Beethoven. La sua vita straripa di quei luoghi comuni tipici degli artisti: il padre, musicista semi-alcolizzato che voleva rifarsi del proprio fallimento con i successi del figlio, al quale tolse due anni di vita nelle documentazioni ufficiali (probabilmente Beethoven non se ne rese conto sino alla morte), cercando di farlo esibire in lungo e in largo come già aveva fatto Leopold Mozart col figlio Wolfgang, non riuscendovi poiché il talento di Ludwig era di una pasta diversa; la madre, dolce e gentile ma facile alla depressione, morta quando lui era un adolescente; i due fratelli, affettuosi ma inevitabilmente mediocri nel dover dividere il palcoscenico della storia con l’ingombrante Ludwig; l’ambiente ristretto della natia Bonn e le difficoltà del trasferimento a Vienna, l’orgogliosa capitale dell’impero; l’iniziale scetticismo del vecchio Haydn; la terribile scoperta della sordità, con annesse tutte le difficoltà materiali ed umane; la mancata costruzione di una propria famiglia (nessuno sa ancora oggi chi fosse la “immortale amatissima” cui spedì la celebre lettera), neppure adottando un giovane nipote scapestrato che anzi, schiacciato dall’invasiva presenza dello zio, tenterà il suicidio; il vivere di rendita, dipendendo da questa o da quella corte almeno fino ai quarant’anni d’età.
Insomma, «la solita storia dei grandi, su cui piace ai posteri spargere eloquenza, salvo poi trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo» (così un altro grande e sfortunato, Cesare Pavese).
La vita di Beethoven è poco altro, anagraficamente e storicamente. Il suo peso musicale può essere tecnicamente trattato parlando delle innovazioni da egli apportate alla materia musicale dei suoi anni.
Dal catalogo emerge una netta predilezione per la musica sinfonica e la musica da camera, con particolare attenzione al pianoforte (e relativi ensemble) e al quartetto d’archi.
Decisamente più scarno il catalogo teatrale e vocale: una sola opera lirica (il Fidelio, più volte rimaneggiato nel corso degli anni), un oratorio (il sottovalutato Cristo sul colle degli ulivi), due messe (l’obliata op.86 e la celebre Missa solemnis), una produzione liederistica non trascurabile (ma di fatto, almeno in Italia, trascuratissima), alcune musiche di scena (Prometeo), oltre naturalmente all’impiego di coro e voci soliste nel finale della Nona Sinfonia.
Già da questo breve elenco della parte meno popolare del corpus beethoveniano, emerge tuttavia un tratto saliente: l’individualismo, il lottare con tutte le proprie forze contro le avversità del destino, sempre superiore e crudele. I personaggi scelti (Prometeo che sfida l’ira divina rubando il fuoco dall’Olimpo; Cristo che si reca sul colle in cerca di solitudine, ben consapevole della Passione che l’attende; la stessa protagonista del Fidelio, Leonora, che si traveste da uomo per salvare il suo amato imprigionato dal crudele governatore) non lasciano il minimo dubbio. Né fa alcuna differenza il fatto che provengano dalla storia provata o dal mito, o siano inventati di sana pianta: tutto si annulla in nome dell’azione presente e delle speranze future.
Questo individualismo apre la strada al secolo Decimo Nono, secolo del Romanticismo e della virtù del singolo, spazzando via l’Illuminismo e i suoi “cittadini del mondo”. Non deve sorprendere che Beethoven provi simpatia o quantomeno sia stato contagiato da queste sensazioni. Egli le respirò fin dalla gioventù, poiché aveva diciannove anni al momento della presa della Bastiglia, poco più di trenta nel periodo del massimo fulgore napoleonico e quarantaquattro al tempo del Congresso di Vienna; e quando morì, i primi moti rivoluzionari erano già scoppiati da almeno sei anni. Non è un caso che il suo segretario Schindler abbia bruciato circa i due terzi dei Quaderni di conversazione (tramite i quali Beethoven conversava con gli amici, a causa della sordità), poiché contenevano a suo dire giudizi troppo espliciti sul potere costituito.
Dove batte il cuore dell’arte beethoveniana è nelle Sinfonie, nelle Sonate per pianoforte e nel Quartetto d’archi. Non mancano affatto però le “emanazioni”: ad esempio i Trii con pianoforte, Sonate per violino o violoncello e pianoforte, oltre alla scrittura degli strumenti d’orchestra e alla struttura stessa delle forme musicali in questione.
La Sinfonia, ad esempio: essa ha origine (quantomeno nella sua forma più attuale) a Mannheim, città tedesca nella quale operarono vari compositori a cavallo delle due metà del Settecento (fra questi anche Mozart), che vantava una delle orchestre più ricche del tempo. Solitamente, dei quattro movimenti che formano la Sinfonia, il primo è quello meglio curato dai compositori; gli altri filano via con maggiore genericità (il tempo lento come secondo, in terza posizione un minuetto, infine un allegro agitato che chiude il tutto). Con Beethoven invece la Sinfonia viene concepita come un ciclo più unitario, spianando la strada al Poema Sinfonico. In alcuni casi (terzo e quarto movimento della Quinta Sinfonia) non c’è interruzione, un movimento segue l’altro. Per non parlare della Sesta Sinfonia, soprannominata Pastorale, in cui ogni movimento rappresenta un quadretto di vita campestre (Sentimenti piacevoli evocati dall’arrivo in campagna, Scena presso un ruscello, Allegra danza di contadini, Temporale, Il rendimento di grazie); a spiegarla è sufficiente la scritta messa in calce alla prima pagina della partitura: «Più espressione di sentimenti che rappresentazione pittorica». Questo processo trova naturalmente il proprio culmine nella Nona Sinfonia, dove una monumentale massa orchestrale unita a coro e quattro voci soliste porta nettamente la secolare esperienza dei “lumi” verso l’800. Non va sottaciuto che pochissime interpretazioni rendono al meglio l’unitarietà di questa Sinfonia, dalla prima all’ultima nota: spesso viene prediletto il finale, con l’Inno alla gioia, a dispetto degli altri tre movimenti (tra cui un meraviglioso Adagio in cui si fondono emozioni di orchestra che esegue e pubblico che ascolta). Per una visione totale di questo monumento della musica, bisogna rivolgersi a Wilhelm Furtwängler.
Non meno acuto il processo di evoluzione imposto da Beethoven al pianoforte. Muzio Clementi aveva già scritto alcuni trattati, parlando delle nuove note conquistate dallo strumento e da un possibile utilizzo del polso anziché del solo braccio. Ma siamo pur sempre in ambito di “scuola”. Con Beethoven irrompe invece l’arte pura. Il pianoforte diventa un’orchestra in miniatura, o quantomeno un ensemble d’archi; il vecchio “basso albertino” imperante nello stile Galante (non indimenticabile branca del Classicismo), viene gettato alle ortiche. La forma-sonata, analoga alla Sinfonia (talvolta con abolizione del minuetto), subisce radicali mutamenti. La Sonata op.26 si apre con un “Tema e Variazioni”. La successiva, op.27 n.1 soprannominata “Quasi una Fantasia”, non ha praticamente una divisione canonica in movimenti, ma è piuttosto un flusso unitario dalla prima all’ultima nota. Da qui si arriva alle ultime Sonate, in particolare la monumentale op.106, della quale maliziosamente lo stesso Beethoven scrisse: «Ecco una Sonata che darà un gran bel filo da torcere ai pianisti per i prossimi cinquant’anni». In realtà il filo da torcere continua ancora dopo due secoli, novello nodo di Gordio per il quale non si è ancora trovato un Alessandro Magno. Le ultime tre Sonate di Beethoven, opp.109 110 e 111, rappresentano un corpus unico: composte tra il 1820 e il 1822, racchiudono in realtà dentro di sé l’intero secolo e forse anche qualcosa del ‘900, nelle loro armonie interrogative e fumose (l’op.109), nell’eterno dipanarsi fra mille rivoli di una stessa cellula musicale (l’arietta dell’op.111).
A questo punto i più scettici potranno domandarsi: ma Beethoven serviva la musica o se ne serviva? Entrambe le cose, compenetrate. Come in un rapporto di amicizia o di amore, come su una barca dove si mischiano la corrente e la forza dei rematori verso un unico obiettivo.
Come Beethoven sia arrivato, nonostante la provenienza culturale dal secolo dei lumi (sia pure un tantino periferica: il “Van” che ne precede il cognome denuncia origini fiamminghe), a rivoluzionare il linguaggio musicale del suo tempo, è di più complessa comprensione. Sicuramente deve aver influito in questo procedimento l’aver vissuto in un’epoca così storicamente inquieta, schiacciata tra la Rivoluzione Francese, l’astro napoleonico e il Congresso di Vienna (che avrebbe dovuto disegnare un secolo di stabilità e invece preparerà un secolo di moti e piccole o grandi rivoluzioni). Per la sensibilità di un musicista questi sono tutti segnali chiarissimi e a cui dedicare la massima attenzione. Ma l’elemento scatenante deve esser stata sicuramente la sordità: l’aver perso il legame più immediato e diretto con la propria arte musicale ha scatenato la fantasia dell’uomo. Come i non-vedenti, che si dice sviluppino un magnifico udito; come quei registi che devastano la psiche degli attori, attraverso prove estenuanti o attese infinite, prima di gettarli nel calderone del palcoscenico, annientandone la personalità per farli meglio aderire al personaggio.
Dalla musica di Beethoven emergono i tratti salienti dell’uomo, ancorché del musicista. Ascoltate la Sonata per pianoforte op.110 (non a caso priva di dedica, quindi intitolata simbolicamente a sé stesso), sentirete un uomo appena uscito da una grave malattia che rischiava di prostrarlo e che rende grazie ad una superiorità divina. Sul rapporto tra Beethoven e la religione è necessario spendere qualche parola. Come molti altri musicisti, egli non era un abitudinario di liturgie e cerimonie, ma il suo rapporto con Dio scaturiva direttamente dalla professione. In compenso era alquanto moralista, difatti non amava il Don Giovanni mozartiano e la citata stretta sorveglianza sul nipote derivava dal timore che questi frequentasse prostitute.
Ascoltate il finale in maggiore della Quinta Sinfonia, è il trionfo della volontà e della personalità, dopo i terribili rintocchi del destino che avevano inaugurato il primo movimento.
Ascoltate l’adagio della Sonata per pianoforte op.106, sentirete tutta la drammaticità e la solitudine dei momenti più tristi della vita di Beethoven.
Un grande pianista e grandissimo interprete beethoveniano, lo svizzero Edwin Fischer, lamentò un giorno: «Oggi siamo diventati troppo raffinati e troppo colti. Per ogni pagina di musica di Beethoven abbiamo tre pagine di spiegazioni. Sappiamo tutto … ma non sappiamo quali soli lo illuminavano, quali grida gli spezzavano il cuore». Qualcuno l’ha considerato un invito al dilettantismo, invece è un monito solenne: la cultura non è un museo delle cere da spolverare pochi minuti prima della visita pubblica, ma un giardino da coltivare e curare di giorno in giorno. Con fiducia e rispetto. Ciò che Beethoven non ebbe mai da Vienna e dai viennesi, tranne che ovviamente al momento della morte.
Giovanni Piana